Intervista con Saba Anglana

Life Changanyisha, il terzo disco di Saba Anglana, è uscito da qualche mese, ormai, e la cantante italo-somalo-etiope è impegnata in un lungo tour promozionale. Life Changanyisha è la storia di un viaggio che Saba ha condotto in Kenia sotto il patrocinio di Amref, l’organizzazione di cooperazione internazionale impegnata da molti anni in Africa con una serie di progetti. È anche grazie alla fama e affidabilità di Amref e alla sua organizzazione logistica, che l’artista, accompagnata da Fabio Barovero, musicista e produttore del disco, ha potuto raggiungere luoghi non facilmente accessibili agli stranieri ed è stata accolta con cordialità e interesse verso la sua proposta musicale e culturale.
È stato un disco faticoso da fare in termini di dispendio di energie, immagino.
Sì, molto. Un mese e mezzo di viaggio con la preoccupazione costante di ottenere un risultato e con la responsabilità di cui ci ha investito Tommy Simmons, il direttore di Amref Italia, affidandoci una missione da compiere, traducendola in musica, in modo tale che fosse anche gradevole, perché alla fine la musica è intrattenimento, anche quando contiene un messaggio alto di tipo sociale e umanitario. Io venivo dalla precedente esperienza col disco Biyo, nel quale il tema era l’acqua ed era legato ai progetti idrici di Amref in Etiopia e avevamo notato che la musica è un veicolo molto potente ad ogni latitudine per portare messaggi e comunicare situazioni di emergenza chiedendo solidarietà e aiuto.
In sostanza la missione era raccontare ciò che avresti visto durante il viaggio in musica, quindi incontrando persone, musicisti, facendoti raccontare storie, cantando e suonando con loro, componendo anche all’istante, sul posto?
In realtà, alla partenza non avevamo ben chiaro cosa avremmo fatto e come, ma ci eravamo portati dell’attrezzatura per registrare sul campo, un piccolo studio mobile, e una tastiera con dei suoni midi, dei ritmi, che ci avrebbe aiutato ad avere un minimo supporto. Poi, l’avventura ce la siamo inventata giorno per giorno. Per quanto riguarda la composizione, oltre ai nostri appunti quotidiani che potevano servire da spunto, c’erano gli incontri con i musicisti locali, soprattutto cantanti, con cui, su basi ritmiche essenziali, montavamo pezzi a cui collaboravo imparando le parole in swahili, ma anche facendomi raccontare dalla mamme, ad esempio, il loro faticoso quotidiano con le loro stesse parole e cosi via. Un metodo molto empirico.
Come avvenivano gli incontri con le comunità locali?
Grazie ad Amref, venivamo in contatto con i capi-progetto, i quali avvertivano le comunità locali del nostro arrivo, in modo che potessero prepararsi ad accoglierci per raccontare la loro situazione, la loro vita di comunità, le difficoltà, i problemi da affrontare, anche attraverso canti e danze.
Non avete mai incontrato diffidenza da parte delle comunità locali?
Direi di no e questo grazie ad Amref, che adotta un metodo di lavoro atto a coinvolgere le comunità nei progetti: quando realizzano un progetto idrico, addestrano del personale tecnico locale che cura le varie fasi della costruzione del pozzo e poi gestisce la manutenzione in modo da responsabilizzare la comunità e non calare dall’alto la donazione, l’aiuto. Tra l’altro, noi siamo arrivati quando stava iniziando la crisi dovuta alla siccità , che poi è esplosa per tutto il 2011, per cui questi interventi sono anche volti a prevenire le situazioni di emergenza, oltre che affrontarle in tempo.
Tornando alla musica e all’approccio con le comunità locali, come si mantiene il giusto equilibrio fra tradizione e modernità, senza tradire la prima, ma nemmeno negare la seconda e, soprattutto, evitando un atteggiamento, anche involontario, colonialista? Nei tuoi appunti racconti di questi talentuosi ragazzini degli slum di Nairobi che sniffano colla e nelle orecchie non hanno i canti della tradizione, ma la scansione dei rapper americani. Mi vengono in mente i giovani sudamericani qui a Milano, che si vestono come i loro coetanei negli Stati Uniti, si ingozzano di birra, negando la propria cultura d’origine e abbracciando il modello che li ha colonizzati e li domina.
Ovviamente sono temi che mi appartengono e sui quali ho molto riflettuto, perché io stessa sono un ibrido. È praticamente impossibile in pochi giorni di incontro spiegare a queste persone che la modernità passa su di loro come un caterpillar appiattendo ogni cosa. Con questo non voglio dire che si deve restare legati per forza alla propria tradizione, chiudersi e non cogliere i segnali che arrivano dal mondo, anzi, tutto il contrario. Tuttavia, nell’ultimo brano del disco, James In Dagoretti, questo ragazzo, James Ndichu, su un impianto musicale tradizionale, che avevamo registrato a due-trecento chilometri da Nairobi, dove sopravvivono modi di vita differenti, “rappa” a suo modo raccontando la vita nel sobborgo della capitale, Dagoretti appunto, creando la sintesi perfetta di quello che dicevamo, la tradizione che si declina nella modernità. Quando glielo abbiamo fatto sentire è rimasto estremamente sorpreso del risultato. Più di mille parole, quel pezzo gli ha fatto capire che è possibile un incontro tra due linguaggi musicali apparentemente inconciliabili. Crediamo di avere prodotto in lui una nuova sensibilità e curiosità, che, magari, si svilupperà e verrà comunicata ad altri. D’altra parte è un problema che vivono anche le nuove generazioni italiane in cui il mainstream imperante sta cancellando ogni senso critico.
Non c’è dubbio.
Sai, quando hai usato la parola “tradire”, mi hai fatto venire in mente che io stessa sono spesso accusata di tradire una parte di me, quando sono troppo italiana o troppo somala o troppo etiope. C’è sempre qualcuno che vorrebbe tirarmi da una parte o dall’altra. Questo perché una parte del pubblico si è creata un’immagine di me che non corrisponde esattamente a quella che sono, cioè, un ibrido tra Africa e Italia e altro ancora, perché viviamo in un’epoca che ci mette a contatto con mille stimoli differenti. Io cerco di essere onesta con me stessa, prima di tutto e guardo al mio passato e al mio presente e cerco di sintetizzare quello che sono in una forma musicale ritenendola la più vicina alla mia essenza. Se poi una parte del pubblico si aspetta qualcosa di diverso non posso farci nulla, non si può chiedere ad un’artista di essere filologicamente coerente con un filone culturale, ma con la propria storia. Io sono tranquilla con la mia coscienza, perché conosco le regole dei linguaggi, di molti linguaggi, anche quelli accademici e so cosa sto facendo.
Sei mai tornata in Somalia?
Non è possibile tornarci. Avevo cinque anni quando abbiamo lasciato il Paese in quarantotto ore, ai tempi di Siad Barre, poco prima che scoppiasse la guerra civile. Per noi, famiglia mista, era più che pericoloso restare, anche volendo. Con Bobby ce lo siamo anche detti ultimamente, che la grande sfida sarebbe tornare a Mogadiscio, ma ora è veramente impossibile. Persino in Kenia, nel periodo in cui abbiamo lavorato a questo disco, ci furono attentati rivendicati dai fondamentalisti. Io stessa temevo di essere un obiettivo come artista “ibrida” che canta la pace tra i popoli, la fratellanza, la mescolanza. Il fondamentalismo è religioso, politico, ma anche culturale e la mia battaglia pacifica, nel mio piccolo, è portare avanti un modello culturale che si affranchi da questo modo di pensare e far capire che i fondamentalismi sono solo un danno.
Life Changanyisha, la vita ci mescola, non possiamo fermarla.

Giulio Cancelliere