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Debora Petrina: Roses Of The Day (Tŭk Voice)
Nei dischi di Petrina colpisce la quantità eterogenea di materiale musicale presente e la disinvoltura con cui viene trattato, utilizzando tecniche più o meno ortodosse, mescolando generi, suoni elettrici ed acustici, tradizioni e avanguardie. Al suo terzo album, registrato per la prestigiosa etichetta di Paolo Fresu, che con lei inaugura una collana “vocale”, la cantante e pianista veneta si concentra solo su voce e pianoforte e utilizza composizioni altrui in una sorta di playlist del cuore, che, naturalmente, personalizza e rende assolutamente originale. Se c’è un denominatore comune che unisce molti dei brani è la poesia, nel senso letterario e letterale del termine, a cominciare da Only, brano a cappella di Morton Feldman, su testo di Rainer Maria Rilke, che apre l’album, e dalla title-track, una composizione originariamente di John Cage, che musicò versi del poeta e.e. cummings, riletti da Petrina in una sorta di abbacinante estasi onirica. Seguono le rime amare di Piero Ciampi in una delle sue canzoni più rappresentative, Ha Tutte le Carte In Regola, la cui strofa marcia al ritmo di un irregolare e zoppicante pizzicato sulle corde del piano e il rovente Jim Morrison di Light My Fire, probabilmente il brano più consunto dalle centinaia di versioni e difficile da rendere, che la nostra risolve pianisticamente, lasciando sullo sfondo melodia e canto. È innegabile, inoltre, che Nick Drake sia uno dei più delicati poeti musicali del ventesimo secolo — la sua River Man ne è una toccante testimonianza — e poi, consentitemi la forzatura, persino Sweet Dreams degli Eurhythmics ha una sua dignità letteraria shakespeariana, incorniciata per l’occasione da un inquietante carillon che non depone a favore di sogni sereni.
David Byrne, uno dei mentori di Debora Petrina, collaboratore nel precedente album, è qui ricordato con Burning Down The House, celebre brano dei Talking Heads, arrangiato per solo pianoforte, ma che conserva la sua potenza, grazie all’uso sapiente di bassi corposi ed efficaci ostinati.
Con Ghosts di David Sylvian entriamo in una dimensione più nebbiosa e inquietante, come in una di quelle storie da leggersi all’imbrunire di Dickens, dove è il pianoforte a creare l’ambiente in cui si muovono i personaggi. Un clima che corrisponde anche a Angel Eyes, forse la più bella melodia scritta per una ballad jazz. Ma è al recentemente scomparso Jack Bruce che viene affidato l’epilogo con la brevissima Can You Follow?, che suona come una provocazione per l’ascoltatore: Now that the songs are moving into night Try sleeping with the dancers in your room, canta in chiusura, come a dire che la musica ci sorveglia, anche quando tentiamo di dormire, come una magnifica ossessione.
Giulio Cancelliere
Un sonoro saluto al 2012
Desidero chiudere il secondo anno di Silenziosa(mente) segnalandovi una serie di dischi jazz e dintorni, che, per vari motivi, meritano attenzione. Anche quando non sono realmente “bei” dischi, segnano comunque un fermento creativo sorprendente che percorre la penisola da nord a sud e viceversa, isole comprese. Magari alcuni di questi nomi vi diranno poco e, ripeto, il loro lavoro discografico, in molti casi autoprodotto come si usa oggi, difficilmente resterà nella storia, ma si tratta in ogni caso di musicisti che vale la pena vedere almeno dal vivo e che si avventurano a cercare una strada alternativa poco battuta. Convinto come sono che la creatività sporca le mani e confortato dalle parole del poeta che cantava “dai diamanti non nasce niente…”, li trovo apprezzabili almeno per questo motivo.
Dalla Sicilia arriva Lino Costa, chitarrista a lungo militante nell’eterogeneo gruppo Tinturia, che col suo Hypnotic Trio formula un jazz venato di folk e rock, tango, rumba e blues. Ha inciso per la neonata etichetta 4MIQE un album, Minimianimali, interessante per le sonorità che mescola tra chitarre acustiche ed elettriche, jew’s harp (in italiano scacciapensieri, in siciliano marranzanu), basso e batteria, con ospiti piano e sax. Vivace.
Del Machine Head 4tet colpisce per cominciare la formazione “pianoless” (i pianisti, fortemente in ribasso ultimamente, troppi e disoccupati, forse per questo, reietti, suonano spesso da soli) costituita da basso, batteria, sax e trombone, integrati da un discreto utilizzo di effetti elettronici, campionamenti, sequenze. L’impronta funk-bop li ha posti all’attenzione dell’etichetta Groove Master Edition, che ha prodotto questo Fuori Dal Chorus: otto brani originali e una rilettura singolare di Donna Lee. Curioso.
L’unità d’Italia si declina anche attraverso le canzoni, a cominciare dalla marcetta di Novaro, passando per Caruso, Azzurro, Margherita, Morricone e Rota, Carpi e Migliacci, Panzeri e Modugno fino all’inno abruzzese Vola Vola Vola. Il fisarmonicista Renzo Ruggieri compila un elenco di Inni D’Italia che uniscono la penisola sotto il segno della melodia coniugata al jazz assieme al bravo Paolo Di Sabatino, pianista versatile e raffinato, e ai grandi autori che hanno fatto la storia della nostra canzone. Patriottico.
Il connubio tra jazz e poesia si ricompone in Narcéte, un lavoro frutto della collaborazione tra la scrittrice Erika Dagnino, non nuova a simili esperienze, e i musicisti Stefano Pastor, Sam Waterman e George Haslam. La parola (in inglese, ma il libretto riporta la traduzione) si aggancia alle musiche e viene trascinata in un vortice sonoro che ne trasfigura senso, ritmo, prosodia. Suoni puntuti e urticanti accompagnano l’ascolto in un percorso non facile, ma in cui, nel giusto stato d’animo, ci si può abbandonare. Inquieto.
Da qualche tempo i chitarristi stanno superando per numero i pianisti (forse per via della comodità di trasporto e maneggevolezza dello strumento in tempo di crisi) e sono prodighi di registrazioni: Dario Volpi, trevigiano costruisce il suo The Second Crash, assieme a Otello Savoia al basso e Franco Del Monego alla batteria, seguendo linee improvvisative alquanto spontanee e sull’onda del mood momentaneo. Umoroso.
Anche gli Amanita Jazz, calabresi, scelgono la forma del trio chitarra-basso-batteria (Raul Gagliardi, Carlo Cimino, Maurizio Mirabelli) per il loro album d’esordio, Gente A Sud, perseguendo traiettorie più tradizionali e rassicuranti, al di là della velenosità del nome scelto. Swing-folk.
Pietro Ballestrero illustra un punto di vista differente con il suo Kyra, più orientato sulla composizione e sulla qualità del suono. D’altra parte si è affidato alle cure di Marco Lincetto e alla sua Velut Luna per ottenere il massimo. Un quintetto d’archi e il clarinetto di Gabriele Mirabassi disegnano, assieme alle chitarre del leader, undici ambienti sonori di pregevole fattura. Cameristico.
Peo Alfonsi, che spesso vediamo al fianco di Al Di Meola durante i suoi tour italiani e internazionali, pubblica il suo secondo album per Egea, Il Velo Di Iside, ancora una volta ispirato ad un mito mediterraneo — come il precedente Itaca — che lo connota sotto il profilo sonoro, della composizione e della prospettiva culturale. Il chitarrista firma tutte le composizioni che affida ai legni, agli ottoni, agli archi, alle voci e alle percussioni di Gabriele Mirabassi, Kyle Gregory, Salvatore Maiore, Francesco Sotgiu, Fausto Beccalossi, Maria Vicentini. Emozionante.
Tra le nuove generazioni di chitarristi si mettono in luce ultimamente Francesco Diodati, di cui mi occuperò più ampiamente in un altro articolo-intervista, e Federico Casagrande, ormai di stanza a Parigi dove ha registrato il suo ultimo lavoro a proprio nome, The Ancient Battle Of The Invisible. È un disco complesso, sia per l’articolazione delle composizioni, sia per l’attenzione che richiede la sonorità stessa dell’album, molto calda e rotonda, costruita sulle timbriche soffici della Telecaster (talvolta “preparata”) del leader e la fluidità del vibrafono di Jeff Davis, intercalate dalle ritmiche di Simon Tailleu e Gautier Garrigue. Tortuoso.
Lanfranco Malaguti, per gli appassionati di jazz, non ha bisogno di presentazioni, è uno dei più importanti e originali chitarristi italiani, ha all’attivo decine di incisioni come leader e partner e il graffio della sua chitarra segna il suono di questo Galaxies, sorta di portfolio musicale ispirato a undici strabilianti immagini scattate nello spazio profondo dal telescopio Hubble. Il quartetto, completato da Nicola Fazzini ai sax, Massimo de Mattia al flauto e Luca Colussi alla batteria, asseconda il leader con leggerezza e senso dell’avventura. Esplorativo.
Tornando sulla terra, il duo Luigi Tessarollo-Roberto Taufic ci riporta a un clima mediterraneo, tra classica e jazz, tra suono acustico ed elettrico, tra Europa e Latinoamerica. Sono due ottimi musicisti e il loro Painting With Strings è un modello di classe, raffinatezza, pulizia di suono. Standard come Cherokee e Stella By Starlight si alternano a composizioni originali, per ritrovarsi nella passione di Besame Mucho. Poetico
Bebo Ferra, che da qualche anno si è votato quasi esclusivamente alla chitarra elettrica, dopo che Paolo Fresu l’ha voluto nel suo Devil Quartet, ha licenziato Specs People, un viaggio ispirato alle sue passioni giovanili pre-jazz, tra rock, progressive, letteratura e storia. L’unica cover, peraltro alquanto stravolta, è la rollingstoniana Satisfaction, ma il trio chitarra-organo-batteria offre suggestioni a pioggia per chi c’era e per chi avrebbe voluto e può solo immaginare. Psichedelico.
Roberto Fabbri è considerato la nuova star della chitarra classica, tanto da meritarsi un contratto Sony e la partecipazione ai più prestigiosi festival. In realtà di classico c’è soprattutto lo strumento, mentre la musica ricalca forme abbastanza moderne, se così si può dire,mutuate dalla canzone: composizioni brevi, orecchiabili, arrangiate per sole chitarre e, in qualche caso, con quartetto d’archi. Nei Tuoi Occhi non appassionerà il pubblico degli addetti ai lavori, ma l’ascolto è piacevole e Fabbri è bravo. Facile.
Passando ai batteristi, altra categoria spesso snobbata dal punto di vista della composizione e leadership, Alessandro Paternesi è senz’altro uno dei giovani più brillanti tra i tamburi: colto, preparato, si circonda di coetanei creativi come lui, come Diodati, Gabriele Evangelista, Simone La Maida ed Enrico Zanisi (fresco di Top Jazz) per una musica che coglie suggestioni dall’urban jazz americano, solido, frenetico, ma anche da una poetica tutta europea che ne stempera le spigolosità troppo accese. Dedicato è il suo esordio da solista col P.O.V. Quintet. Innovativo.
Anche Fabrizio Sferra, macchina ritmica di lungo corso, ama contornarsi di figure emergenti e per il suo Untitled #28 ha chiamato Giovanni Guidi, Dan Kinzelman, e Joe Rehmer, cui lascia molto spazio per la costruzione delle sue composizioni, basate su temi spesso dilatati, architetture ritmiche complesse (come poteva essere altrimenti?) e per le improvvisazioni collettive che si aprono qua e là. Meditativo.
La perentoria dichiarazione This Is My Music lascia poco spazio ai fraintendimenti. Matteo Fraboni è andato a New York per incidere questo suo disco d’esordio e si sente. La musica rievoca quella atmosfera nervosa e turbolenta, tra sax tenore e contralto (gli ottimi George Garzone e Logan Richardson), piano elettrico ed acustico (Arvan Ortiz, dinamico e fantasioso) e il solido Rashaan Carter al contrabbasso, che si è fatto le ossa con Roy Hargrove, Stefon Harris, Gary Thomas e Wallace Roney. Urbano.
Il batterista Ferdinando Faraò lascia per una volta il posto tra i tamburi per sistemarsi sul podio della imponente Artchipel Orchestra e rendere omaggio ad una stagione di jazz-rock britannico misconosciuta ai più — non ebbe l’esposizione di quello americano — ma ricca di stimoli creativi per niente datati. Never Odd Or Even propone composizioni tratte da un vecchio progetto del pianista Mike Westbrook, dei National Health e di Fred Frith si susseguono in una proiezione in bianco e nero di quegli anni Settanta, che, tra luci ed ombre, sono stati il decennio culturalmente più significativo del secondo dopoguerra. Sontuoso.
Scorribanda è il terzo lavoro di BandOrkestra.55, la compagine condotta dall’ eclettico sassofonista friulano Marco Castelli, che attraversa generi e Paesi, tradizioni e tendenze con una disinvoltura invidiabile. Qui la troviamo alle prese con standard jazz quali Lullaby Of Birdland, Stolen Moments e I Got Rhythm,, musica da film come Baby Elephant Walk, classici del pop come Day Tripper, Suite: Judy Blue Eyes e Billie Jean, coniugandoli nei tempi e modi swing, ska, reggae, latin, boogie, electro-pop, rimescolando tutto e spingendo sempre un po’ più in là il confine della musica da big band. Trascinante.
In scala più piccola, è un sestetto, e utilizzando soprattutto materiale originale, anche gli Ottavo Richter cercano di riformulare il repertorio per “banda”, anche se la loro ha le caratteristiche itineranti di una marching band stanziale. Una Bella Serata è il loro ultimo lavoro, che vede tra gli ospiti Gianluigi Carlone della Banda Osiris e il giornalista Antonio Di Bella, dalle note passioni canore. Piacevole. Ed infine a volo d’uccello:
Paolo Alderighi, brillante pianista cristallizzato
sulla tradizione jazz che padroneggia come nessun altro in Italia e il suo nuovo Piano Solo; i Naked Truth di Lorenzo Feliciati e il nuovo lavoro Ouroboros, un po’ troppo roboante rispetto al precedente ; Giuseppe Del Re, cantante pugliese bravo, intonato, fin troppo preciso, fino ad essere didascalico col suo
Gateway To Life; Susanna Stivali, per Piani/Diversi si affida a cinque
differenti pianisti per accompagnare le sue divagazioni vocali, talvolta borderline; Cristina Zavalloni e la Donna Di Cristallo non lasciano mai indifferenti, ma l’approccio avventuroso della eccellente cantante e compositrice bolognese è spesso inquietante; la rossa Antonella
Catanese coraggiosamente cerca di
scrivere jazz in italiano e si contorna di ottimi partner come Giovanni Mazzarino, curatore anche degli arrangiamenti, Dino Rubino, Max Ionata, Riccardo Fioravanti, Giuseppe Mirabella, Nicola Angelucci, anche se il risultato di Red Inside è francamente
monocorde; Just Duet è il nome scelto da Laura Battel e Francesco Tizianel per unirsi artisticamente e accreditarsi con Stop The Time come i Tuck & Patti italiani, facendosi persino co-produrre dal celebre duo americano. Bravi, senza dubbio, graziosi e amabili come i loro mentori, ma il confronto, anche senza volerlo, è imposto dalle circostanze.
Giulio Cancelliere
Intervista con Dino Rubino
Non capita così spesso di innamorarsi di un disco, soprattutto se si ha a che fare con quantità abnormi di musica ogni giorno. Eppure Zenzi mi ha colpito subito per la sua cantabilità, leggerezza e intensità, le caratteristiche peculiari della grande artista sudafricana che l’ha ispirato e che Dino Rubino, pianista e trombettista siciliano, ha infuso nella sua registrazione. Miriam Makeba era tutto questo e il legame col nostro Paese paradossalmente si è consolidato e spezzato nello stesso istante in cui è mancata, subito dopo un concerto a Castelvolturno nel 2008, invitata da Roberto Saviano per un’iniziativa culturale contro la camorra.
Lo stesso “colpo di fulmine” è quello che ha folgorato Dino Rubino dopo avere letto la biografia di Mama Afrika.
“Non conoscevo la sua musica, ma dopo avere letto la sua storia, la sua vita, il suo impegno, sono andato a sentirla e ho avvertito l’esigenza di fare questo album. Tra l’altro Paolo Fresu mi aveva proposto la produzione di un disco per la sua etichetta Tuk e quando gli ho sottoposto questo progetto ha subito accettato.”
È un disco che assomiglia molto a Miriam Makeba e forse è per questo che mi è piaciuto così tanto, ma anche perché, a differenza di ciò che fanno solitamente i pianisti, non ti sei voluto complicare troppo la vita armonicamente parlando. Mi sembra che fluisca tutto piuttosto spontaneamente.
“È così, in effetti. In realtà non mi piace la musica troppo cervellotica e in questa situazione ancor più mi sono voluto attenere a uno spirito che non stridesse con la musicalità di Miriam Makeba. L’aggettivo cantabile è stato un termine chiave e di riferimento.”
Con Stefano Bagnoli e Paolino Dalla Porta, i musicisti che ti affiancano, hai una consuetudine che ti ha permesso questa spontaneità?
“Suono con loro da diversi anni, da quando, con Francesco Cafiso, avevamo il gruppo 4Out. Poi il quartetto è stato sciolto da Francesco, ma noi abbiamo continuato a suonare insieme.”
Questa cantabilità che ti appartiene viene prevalentemente dall’attività di pianista o trombettista?
“Direi da quella di trombettista, soprattutto per un fatto tecnico: prima di emettere una nota alla tromba te la devi cantare dentro te. Questo ha risvegliato probabilmente un senso melodico latente, che si è riversato anche sul pianoforte.”
Quando hai cominciato a suonare la tromba?
“A quattordici anni. Allora studiavo pianoforte al conservatorio, vidi un concerto di Tom Harrell in un piccolissimo club a Umbria Jazz e al termine dissi a mio padre che volevo suonare la tromba. Così feci. Lasciai gli studi di pianoforte classico, che ripresi e completai solo a ventuno anni. Successivamente ebbi dei problemi ai denti che mi impedirono di proseguire con la tromba per almeno tre anni. Superati anche questi, ora gestisco entrambe le cose abbastanza senza stress.”
Mentre registravi la musica di Miriam Makeba ti è mai venuto in mente Abdullah Ibrahim, il grande pianista jazz sudafricano?
“Altroché, è uno di miei principali riferimenti e avevamo in mente di fargli scrivere le note di copertina, c’era anche un mezzo accordo, ma poi le cose sono andate diversamente.”
Ora che cosa hai in programma?
“Sto suonando molto dal vivo. Ho fatto un tour con Francesco Cafiso e l’Island Blue Quartet in Sudamerica, ho fatto quattro concerti con Enrico Rava in Sicilia in una formazione che prevedeva solo musicisti siciliani.”
Suonavi solo il piano o anche la tromba? “Anche la tromba, con Enrico non posso farne a meno, visto che è lui che mi incoraggia sempre. Suonerò con Rava ancora a dicembre. Inoltre ho fatto dei concerti con Steve Grossman e per tutto il prossimo mese ho molti concerti con questo trio di Zenzi. Tra l’altro il 18 dicembre a Milano saremo al Teatro Dal Verme con una formazione che prevede anche due giovanissimi musicisti siciliani, Giovanni e Matteo Cutello, suonano sax e tromba, hanno 11 e 12 anni e sono bravissimi.
Giulio Cancelliere
Diego Baiardi: Bonne Nuit (Incipit Books/Egea) €29,00
Nato dalla passione del pianista Diego Baiardi per le ninne nanne d’ogni epoca e origine, il disco-libro Bonne Nuit gioca sull’ambiguità e l’equivoco: se sono i più piccoli per elezione a fruire di queste piccole composizioni illustrate dal geniale Guido Crepax, per chi scrive, che da ragazzino si è nutrito di Linus e AlterLinus, il nome e il tratto di Valentina significano più fantasia che sogno, a riprova che non si tratta di un lavoro per bambini, ma per grandi che ancora nascondono in sé un cuore di bimbo un po’ cresciuto.
Scherzi a parte, Baiardi ha messo assieme un bel gruppo di cantanti e strumentisti, da Paola Folli a Petra Magoni, da Patrizia Laquidara a Helena Hellwig, da Albert Hera a Cristina Zavalloni, accompagnate da grandi solisti come Paolo Fresu, Riccardo Fioravanti, Antonello Salis, Andrea Dulbecco, Giulio Visibelli per creare un percorso dal crepuscolo all’alba o, per dirla letterariamente, al termine della notte, anche se la citazione Celiniana risulta piuttosto inquietante considerato l’autore. Partendo da Lullaby For Wyatt di Sheryl Crow per concludersi con Akebono, intonata da De Piscopo all’hang, è un dipanarsi di canti tradizionali “da ascoltarsi all’imbrunire”, parafrasando Dickens, in un viaggio dal Trentino al Maghreb, passando per Veneto, Balcani e Brasile, ma anche tra le melodie immaginate da Billy Joel, Cure, Fred Buscaglione, Johannes Brahms, Sammy Cahn. Le pagine patinate del libro accompagnano l’ascolto con rare immagini di Valentina bambina, assieme ad altre celeberrime, come la Valentina guerriera a cavallo con tanto di armatura metallica indossata a pelle, di straordinaria potenza evocativa (e non dico altro), e con i testi dei brani commentati da Antonio Crepax, figlio di Guido. L’ascolto serale è altamente consigliato, concilia il sogno.
Giulio Cancelliere
Stasera Björk On The Moon su Tweetter
BJÖRK ON THE MOON (Abeat Records/IRD), dell’armonicista MAX DE ALOE, è il primo disco nel panorama jazz italiano interamente dedicato ad un artista alternative.
In uscita il 23 maggio, Björk on the moon sarà il primo LP 180 grammi HIGH QUALITY (in 500 copie numerate) ad essere pubblicato dall’etichetta jazz Abeat Records e, sulle piattaforme digitali, sarà il primo disco in Italia ad essere disponibile in alta definizione HD per audiofili (24 bit 88 kilohertz).
Stasera, alle ore 21.30, presso il TEATRO CONDOMINIO VITTORIO GASSMAN di Gallarate (via G. Sironi, 5 – ingresso 20 euro) MAX DE ALOE presenterà dal vivo il nuovo disco BJORK ON THE MOON, interamente dedicato al repertorio della cantante islandese Bjork. Sul Twitter di Abeat Press (https://twitter.com/#!/AbeatRecords) il commento in diretta del concerto.
Sul palco MAX DE ALOE sarà accompagnato da Roberto Olzer (pianoforte), Marco Mistrangelo (contrabbasso), Nicola Stranieri (batteria) e Marlise Goidanich (violoncello barocco) con la straordinaria partecipazione di BEBO FERRA (chitarra) e ANDREA DULBECCO (vibrafono).
“Björk on the moon” raccoglie 12 brani del repertorio di Bjork in cui MAX DE ALOE e il suo quartetto – formato da Roberto Olzer (pianoforte), Marco Mistrangelo (contrabbasso) e Nicola Stranieri (batteria) – si addentrano nelle armonie della cantante islandese per estrarne un sound jazz d’avanguardia. Il disco vede anche la straordinaria partecipazione della violoncellista brasiliana Marlise Goidanich.