Intervista con Piers Faccini

01Quasi sotto voce e in punta di piedi Piers Faccini, inglese in Francia, nel giro di una decina d’anni e una manciata di album ha fatto dell’Italia la sua terza patria (peraltro parla piuttosto bene la  nostra lingua), dove conta una folta schiera di fan fedeli e affezionati al suo stile cantautorale che tanto attinge dal rock più raffinato, dal blues e dalle radici africane di quest’ultimo. In attesa del suo nuovo disco Between Dogs And Wolves, già disponibile in digitale, ma in vendita nel formato fisico, cd e/o vinile, solo dal gennaio 2014, eccolo “regalare” al suo pubblico una chicca davvero preziosa: un libro con le riproduzioni di diciassette sue opere grafiche realizzate con la tecnica del cut out (una raffinatissima forma di collage cartaceo) e dedicate ad altrettanti personaggi della musica particolarmente significativi per lui (Dylan, Skip James, Nico, Cohen, Springsteen, Pino Daniele, Morissey tra gli altri), accompagnate da un CD con le canzoni abbinate agli artisti. Songs I Love, il titolo chiaro e semplice scelto per questa raccolta nata sul suo sito, dove da tempo si potevano ascoltare cover dei suoi musicisti preferiti, ora riuniti in questa pregiata raccolta.
Non è la tua tecnica pittorica consueta.PiersFaccini-SongsIlove-mrcup-02
“È da un po’ che lavoro con la carta per le mie opere grafiche e la copertina del mio ultimo album Between Dogs And Wolves è il risultato di questa mia vena. Trovo che lavorare con la carta si adatti molto bene al piccolo formato, come quello di un disco e di questo libro.”
È una tecnica molto raffinata, perché l’opera si compone di pochissime parti, anzi, la sezione principale, quella che rappresenta la figura vera e propria, è un pezzo unico, in cui inserisci ritagli colorati per dare profondità, tridimensionalità e ombreggiature quando occorre.
“Sì, ritaglio il cartoncino con un taglierino e realizzo la figura in pezzo unico. Poi aggiungo qualche dettaglio, talvolta vado per tentativi, improvvisando, per vedere che effetto fa.”
Quali sono i tuoi artisti di riferimento, quelli che ti hanno ispirato maggiormente in pittura?
03“Francis Bacon, Lucian Freud, Balthus, Gerhard Richter, Morandi.”
Sono tutti artisti con un tratto molto forte, persino provocatorio a volte.
“Sono artisti che hanno lavorato molto sulla figura umana che è quello che mi interessa:  mi piace rappresentare la percezione del mondo attraverso i volti.”
E come si collegano le canzoni con questi ritratti?
“Suonare la canzone di un altro musicista è come ritrarlo in un dipinto.”
Tuttavia in molti casi hai scelto delle canzoni non particolarmente rappresentative di ciascun artista.
02“Ma lo sono per me. I miei gusti sono piuttosto particolari, come la mia musica.”
Hai realizzato anche dei video seguendo questa tua passione per la carta.
“Sono tre video realizzati con la tecnica stop-motion. Ho scattato ogni singolo fotogramma montato uno di seguito all’altro per dare la sensazione del movimento. È un lavoro molto lungo, ma l’effetto è suggestivo.”
Oltre alle canzoni scrivi dell’altro?
“Poesie. Spero di pubblicare qualcosa nel 2014.
Nel 2014 tornerai anche in Italia per un tour?
“Sì, a marzo: le date saranno a Mantova, Livorno, Bologna, Milano, San Benedetto del Tronto, Roma, Napoli, Bari.”

Le date italiane 2014

venerdì 14 marzo 2014
MANTOVA – Arci Tom
Piazza Tom Benetollo, 1

sabato 15 marzo 2014
LIVORNO – The Cage Theatre
Via del Vecchio Lazzeretto, 20

domenica 16 marzo 2014
BOLOGNA – Locomotiv Club
Via Sebastiano Serlio, 25/2

lunedì 17 marzo 2014
MILANO – Salumeria della Musica
Via Antonio Pasinetti, 4

mercoledì 19 marzo 2014
SAN BENEDETTO DEL TRONTO (AP) – Mathilda Club
Via Ischia Prima, 96 (Grottammare)

giovedì 20 marzo 2014
ROMA – Rising Love
Via delle Conce, 15

venerdì 21 marzo 2014
NAPOLI – Casa della Musica
Via Barbagallo, 115

sabato 22 marzo 2014
BARI – TBA
more news soon

Tutti gli aggiornamenti su http://www.piersfaccini.com

Giulio Cancelliere

Intervista con Roberto Ciotti

foto Roberto Ciotti 2Figura storica del blues in Italia sin dagli anni Settanta, quando incideva i primi dischi per la Cramps di Gianni Sassi, Roberto Ciotti è giunto al quindicesimo album, Equilibrio Precario, un titolo che si attaglia perfettamente ai tempi che stiamo vivendo.
“Sì, è una situazione di provvisorietà abbastanza diffusa che ho voluto rappresentare alla mia maniera.”
Ci sono diversi pezzi in italiano. Leggo persino una vena cantautorale. È un po’ una novità per te, che di solito canti in inglese.
“Infatti, a ogni disco cerco di dare una caratterizzazione e a questo, oltre ai numerosi pezzi in italiano, ho dato un suono piuttosto ricco, con tastiere e arrangiamenti più elaborati che non appartengono ad altri lavori che ho fatto in passato, molto più vintage. Il brano Equilibrio Precario nasce da uno sfogo  espresso circa un anno fa, quando ho cominciato a registrare il disco ed è diventato la bandiera dell’album stesso. Per quanto riguarda l’uso dell’italiano, è una prova che ho fatto e mi pare che sia andata bene, anche se a qualcuno suona strano sentirmi cantare così. Tra l’altro, noto che all’estero piace molto sentir cantare in italiano, forse perché ti conferisce una collocazione geografica precisa. ”
Non c’è solo pessimismo, anche se il blues è una musica che nasce pessimista.
“No, certo, ci sono pezzi più solari, ironici, divertenti, anche se, in effetti, il blues nell’accezione storica è blue, appunto, ma contiene tutti i sentimenti.”
Mi pare che ai musicisti italiani il blues sia venuto sempre piuttosto bene. È una musica adatta a noi, che riscuote sempre un buon successo.
cover EQUILIBRIO PRECARIO“Può darsi, io l’ho sempre fatto a modo mio, con uno spirito più latino, melodie personali, anche se ho sempre suonato i classici anni Settanta, perché da ragazzetto mi piaceva partire con questi assoli di venti minuti…anche oggi li faccio troppo lunghi, ma, insomma, cerco di limitarmi e dare più sfogo alla vena di cantante, autore, arrangiatore.”
Tuttavia non sei mai stato un virtuoso della chitarra, non sei uno di quelli che suonano a trecento all’ora, ma privilegi il suono, l’espressione rispetto allo sfoggio di tecnica.
“Nel blues il virtuosismo stona proprio, non serve. Anche Hendrix, che era una specie di virtuoso, in realtà improvvisava su frasi che erano canzoni loro stesse. Nel blues la melodia è fondamentale. Il mio stile è stato definito Blues Mediterraneo. Forse hanno ragione.”
Un tuo collega anni fa mi fece notare, forse generalizzando un po’, che il virtuosismo nel blues appartiene soprattutto ai bianchi, mentre i neri badano ad altro.
“Sì, è spesso così. I bianchi suonano più di testa, mentre i neri si esprimono con l’anima. Ne ho avuto l’ennesima riprova durante le mie tournée in Africa. Sto per tornarci per la terza volta e incidere un disco con musicisti senegalesi a Dakar, dove ho già partecipato al St. Louis Jazz Festival, come rappresentante dell’Italia. Una cosa fantastica!”
A proposito di Hendrix, nel disco c’è una tua versione di Hey Joe, ma anche Moondance di Van Morrison.
“Van Morrison è il bianco più nero d’Europa, ha scritto grandi pezzi e Moondance è uno dei più belli, anche se è stato interpretato in modi un po‘ troppo leccati per i miei gusti. Io l’ho riportato a una dimensione più blues. MI piace sempre suonarlo dal vivo e credo di averlo arrangiato in uno stile originale.”
Hai lavorato anche per il cinema in passato con Salvatores per le colonne sonore di Marrakech Express e Turné. Lo farai ancora?
“Spero di sì. Se diventi di moda ti chiamano, altrimenti…”
Quanto ha ancora senso fare un disco, un CD, progettare una raccolta di canzoni, quando i ragazzi scaricano i pezzi singoli da internet?
foto Roberto Ciotti“Non so, a me piace ancora fare dischi. Sarò antico, ma mi piace dare una cornice alle canzoni, tenere in mano una copertina, leggere i testi, sapere chi ci suona. Sai, io non vendo maglioni o mortadella, mi evolvo e ho bisogno di dare un senso alla mia espressione musicale. È un’esigenza più artistica che commerciale.”
L’artista però vive anche di pubblico fresco e giovane. Come la metti con l’antichità?
“Io vedo che ai miei concerti vengono tanti giovani. Saranno i figli di chi ha ancora le mie abitudini antiche e sono cresciuti con i vinili in casa. Sarò impopolare per quello che sto per dire, ma, secondo me, chi ama la musica è spesso perché ha genitori che hanno fatto più della quinta elementare. Poi ci sono le eccezioni, non lo nego. Sono stato a suonare a Bratislava, ho riempito il teatro di giovani e i figli dell’ambasciatore sono venuti a trovarmi per conoscermi. Erano ragazzi di diciotto-vent’anni che suonano. Ora, non voglio dire che bisogna essere figli dell’ambasciatore per amare la musica, ma un po’ di cultura generale non guasta, tuttavia io abito al Testaccio a Roma, un quartiere popolare e ai ragazzi, che sono figli di operai e impiegati, faccio ascoltare il blues e vedo che si entusiasmano.”
Il blues dovrebbe essere musica popolare per definizione.
“Sì, ma i criteri si sono ribaltati e il blues è musica colta rispetto a quella che passa la televisione, ammesso che passi qualcosa di musicale. E non parlo di Sanremo che è un ghetto a parte.”
Un ghetto?
“Sì, dicono che io sono nel ghetto, ma non si accorgono di quanto sono ghettizzati loro. Se vai in Senegal o in Brasile, la televisione trasmette musica meravigliosa, mentre qui è solo spazzatura commerciale.”

Giulio Cancelliere

 

Intervista con Stefania Patané

WD197Al debutto discografico come solista, dopo alcune collaborazioni e un’ampia attività concertistica e didattica, Stefania Patané, cantante e compositrice catanese, esordisce con un album fortemente caratterizzato da ritmi e profumi afro-latini. Even Not 4 (Wide Sound) si segnala anche per la varietà di scansioni irregolari: sette quarti, cinque quarti, tre quarti, raramente un banale quattro quarti.
“È un disco che rappresenta il mio percorso musicale di questi anni, che comprende certamente il jazz, ma anche un’ampia gamma di altre musiche mediterranee, africane, sudamericane, che compongono il mio gusto. Sono arrangiamenti di pezzi conosciuti su cui lavoravo da tempo, assieme ad alcune composizioni originali.”
Hai studiato canto, sei diplomata, ma hai anche intrapreso lo studio delle percussioni. Mi pare che abbia influenzato il tuo stile, soprattutto improvvisativo.
“La mia formazione è piuttosto eterogenea, ho studiato anche chitarra. Certo, l’aspetto ritmico è molto importante per me, sia quando compongo, sia quando canto e improvviso. Penso che se rinascessi sarei una batterista. Tuttavia vorrei sottolineare anche la componente melodica della mia musica.”
È vero e aggiungerei anche il suono della lingua che usi spesso, il portoghese, oltre a linee melodiche che sanno di Brasile, ma anche di Africa occidentale.
“Hai detto bene, che sanno di Brasile, ma non sono prettamente brasiliane, filtrate attraverso il jazz e la mia sensibilità. La mia guida è sempre stata il jazz mainstream, Ella Fitzgerald per intenderci, ho studiato tanto con Bob Stoloff, ma la brasilianità, questa sensibilità per il sud del mondo mi accompagna da sempre spontaneamente, non posso prescinderne.”
foto stefania patanèDevo dire che mi ha piacevolmente  sorpreso la tua versione di Infant Eyes, la meravigliosa ballad di Wayne Shorter, che hai accelerato e trasformato in canzone con testo originale in portoghese.
“Sono una ammiratrice di Shorter, come tanti cantanti del resto e so di avere osato molto, ma aggiungo che parte della responsabilità è da imputare al pianista Luca Mannutza, che ha collaborato con me all’arrangiamento.”
Gli altri collaboratori di questo disco sono Daniele Sorrentino al basso e Nicola Angelucci alla batteria, che completano il quartetto base, con l’aggiunta di Paolo Recchia ai sax soprano e contralto e Bob Stoloff, special guest in una originalissima versione a cappella di On Green Dolphin Street, in cui entrambi mettete in evidenza le vostre doti di strumentisti della voce. Tra l’altro tu hai lavorato a lungo anche con un’altra grande cantante: Norma Winstone.
“Una grande donna e una grande artista dalla quale ho imparato tanto. Norma è una persona generosa e umile con la quale ho stretto un bellissimo rapporto da tanti anni.”
Patané è un cognome celebre nel campo della musica classica: Francesco e Giuseppe Patané sono stati grandi direttori d’orchestra. Ti hanno lasciato qualcosa in eredità del patrimonio classico-operistico in termini di gusto e passione?
“Non proprio: Giuseppe Patané era cugino di mio padre e Francesco fratello di mio nonno. Da loro ho ereditato senz’altro la passione per la musica, anche la musica classica, ma il melodramma è un genere che non mi emoziona particolarmente.”
Sei uno dei rari casi di musicista-medico, essendoti laureata in medicina. Hai mai esercitato?
“Diciamo che il trait-d’union tra musica e medicina è che la mia tesi di laurea riguardava la foniatria, quindi metto a frutto le mie conoscenze mediche nell’attività didattica, di preparazione dei cantanti attraverso tecniche particolari come l’Estill Voicecraft e altre che ho ideato io stessa.”

Giulio Cancelliere

Intervista con Davide Borra (Kachupa)

01_FOTO Kachupa_bIn tempi di globalizzazione consolidata non sorprende più una band che mette assieme melodie del bacino mediterraneo con ritmi balcanici, rumba africana, afrori caraibici e canti occitani, ma Kachupa ha una storia del tutto particolare, a partire dalla sua origine gastronomica: Kachupa, infatti, è una zuppa tipica di Capo Verde fatta di verdura, frutta, legumi, cereali e pesce, ingredienti poveri, ma nutrienti, che forniscono l’energia vitale che anima questa band. Ho chiesto a Davide Borra, fisarmonicista e fondatore della band, di raccontarmi la storia di Kachupa, formazione che ha già un disco alle spalle, Gabrovo Express, del 2006, pluripremiato, e ora sta pubblicando Terzo Binario, un cofanetto che comprende un CD e un libro col patrocinio di Slow Food.
“Nasce tutto da un mio viaggio in Africa. All’epoca lavoravo con gli altri musicisti in un gruppo teatrale e la sensazione di libertà, armonia, gioia di vivere che provai suonando la fisarmonica su queste immense spiagge dell’arcipelago di Capo Verde mangiando Kachupa, mi spinse, al mio ritorno, a chiedere agli altri ragazzi di metter assieme un’orchestra per suonare una musica che sintetizzasse queste sensazioni, ma soprattutto, che fosse una musica semplice come la Kachupa, povera, di strada, che tutti potessero recepire.”
E siete diventati una band di strada vera e propria.
“Infatti: la strada è diventata la nostra sala prove, dove capivamo cosa piaceva alla gente, cosa gradiva di più, cosa la entusiasmava.”
Giravate con un carro come le antiche compagnie di teatranti.
“Abbiamo adattato un vecchio carro di un mio prozio a palcoscenico, aggiungendovi una mantovana, colorandolo in rosso, giallo e blu, come un circo, su cui montavamo la batteria, o meglio, la grancassa, perché gli altri tamburi erano in realtà pentolame, forme di budini e tutta quanto si può percuotere, anche questi coloratissimi, un apparato che attirava subito l’attenzione della gente che si fermava ad ascoltarci.”
E dove giravate?
“Abbiamo girato molto in Francia, tutta la Costa Azzurra, sino a Marsiglia. E poi in Italia, soprattutto al sud, tra Puglia e Calabria.”
Dove tra l’altro ci sono antiche comunità occitane, come nelle valli della tua terra in provincia di Cuneo.
02_FOTO Kachupa_b“Certo, l’estate scorsa vicino a Barletta abbiamo incontrato una scuola di danze occitane, con dei ballerini bravissimi.”
Voi siete nati sette-otto ani fa e nel frattempo sono nate anche altre formazioni che sfruttano questa formula che si riassume sbrigativamente con il termine patchanka, ognuna con la sua caratteristica peculiare. Qual è il vostro punto di forza che vi differenzia dalle altre?
“Credo la nostra cantante Lidiya Koycheva, è bulgara e ha una gran voce. Inoltre utilizziamo anche strumenti elettronici, inseriamo nella nostra musica elementi rock, non ci poniamo alcun limite.”
Questo fenomeno di riscoperta della musica folk ha delle analogie con ciò che accadde negli anni Settanta con formazioni quali Nuova Compagnia Di Canto Popolare, Carnascialia, Canzoniere del Lazio, anche Premiata Forneria Marconi per certi versi, anche se su un fronte più prog. Come la spieghi?
“Io credo che sia una reazione all’omologazione imperante: esiste un modello, quello radiofonico imposto dalle major, che pone dei confini alla creatività, anche se molti musicisti vi si adeguano. Altri, invece, decidono di provare altre strade, molto più larghe e spaziose, dove si può provare a rileggere ciò che è stato in passato, con una visione nuova, seguendo quel che pulsa nel cuore.”
COVER_TERZO BINARIO_Kachupa_bOra però anche voi avete fatto dei dischi e qualche condizionamento, qualche compressione l’avrete subita?
“Sì, ma solo fino a un certo punto. Nei dischi abbiamo messo i pezzi che abbiamo scritto e che per anni abbiamo suonato per strada. Li abbiamo arrangiati in modo da dare una veste più rock, se vuoi più moderna e fruibile per un CD, ma stiamo lavorando anche a un progetto più sperimentale basato su suoni e vocalizzi molto free. Comunque nessuno ci ha imposto niente. È tutta roba nostra, genuina e spontanea.”
Il disco esce con un libro che racconta la vostra storia. Come mai?
“L’idea del libro nasce dall’esigenza di raccontare ciò che si muove dietro e attorno alla nostra musica, ma anche una storia che ha qualcosa di straordinario e vuole essere un incoraggiamento per chi non vuole omologarsi a perseguire la propria  idea crativa. La vicenda di Kachupa è emblematica.”
E Slow Food cosa c’entra?
“Carlin Petrini, patron di Slow Food, ci ha spinto a scrivere il libro e ne ha scritto la prefazione. Noi crediamo nella biodiversità, sia nel cibo, sia nella musica, non per niente siamo Kachupa.”
Suonate ancora per strada?
“Qualche volta.”

Giulio Cancelliere